Nella vita, diceva un filosofo, ci sono due soli momenti reali: la nascita è la morte, il resto è sogno – interrotto da qualche insignificante spazio di veglia. Così, mutatis mutandis, è per le startup: la raccolta fondi, la gestione ordinaria, i contratti con clienti e fornitori sono importanti, ma ci sono due fasi davvero cruciali: il lancio, quando si decide di rompere gli indugi, e il momento dell’exit, quando come un bruco, la startup si evolve per diventare qualcos’altro, o morire.
Di exit – evento abbastanza raro in Italia, peraltro – ce ne possono essere di tre tipi: la quotazione in Borsa (o Ipo), la fusione o acquisizione da parte di un’altra azienda (che in inglese si definisce “merger & acquisitions”, o M&A); oppure il fallimento. Anche quest’ultimo, se vogliamo, è una forma di “exit”: non la più desiderabile, senza dubbio.
Di Ipo ce ne sono poche, fallimenti di più, ma quello che qui davvero interessa (e che comunemente si intende come exit) sono le M&A. Quali sono gli errori che si commettono più di frequente al momento di vendere? Quali le buone pratiche da seguire?
Ne ho parlato con due addetti ai lavori: il consulente tedesco Falk Muller-Veerse, che ho incontrato a Murcia nell’ambito di Arctic Startups in the Sun, e Guk Kim, giovane startupper coreano che ha appena ceduto l’italiana Cibando agli indiani di Zomato.
“L’errore più comune – dice Muller-Veerse, fondatore e direttore della società di consulenza Cartagena Capital – è quello di non arrivare preparati all’exit. Non è qualcosa che si improvvisa: occorre ad esempio, essere sicuri che al momento in cui arriva una proposta, tutti gli azionisti siano allineati sulle condizioni di vendita. A quanto vendere, e in che modo”.
Bisogna accertarsi che la contabilità, i “financials”, sia in ordine: se ci sono cose da sistemare, bisogna farlo per tempo; e poi tener conto che quello dell’M&A è un gioco in cui venditore e compratore anche se vogliono arrivare allo stesso risultato, hanno interessi contrastanti, ed è lecito giocare un po’ “sporco”. Meglio pararsi le spalle.
“Negoziare con un potenziale acquirente e preparare tutta la documentazione necessaria per le varie operazioni – afferma Guk Kim – è uno degli aspetti più complicati e delicati. Essere seguiti con precisione da un consulente legale è un elemento fondamentale”.
“Un altro errore molto diffuso – sottolinea Muller-Veerse – è quello di fermarsi a trattare troppo a lungo con il potenziale compratore. Questo perché qualsiasi compratore con uno staff bene addestrato, cercherà di coinvolgere emozionalmente la startup, in particolare l’amministratore delegato”. Con l’obiettivo di guadagnare tempo, tirarla per le lunghe, e arrivare a un punto in cui alla startup non resta che chiudere la trattativa, perché altri potenziali compratori si sono nel frattempo dileguati. Quello di tenere più tavoli di negoziazione aperti, è ovviamente, un altro consiglio fondamentale.
In generale, comunque, l’approccio all’exit differisce molto fra Stati Uniti e Europa: se negli Usa, si pensa a come “uscire” fin dall’inizio, dandosi magari un tempo di cinque, massimo dieci anni per rientrare dall’investimento, in Europa si è legati a un modello di imprenditoria più tradizionale, in cui quello che conta è soprattutto far crescere l’attività. Una volta che il prodotto funziona, i compratori arriveranno.
È stato questo l’approccio di Cibando. “Non credo – spiega – che un imprenditore debba creare una startup con l’intento primario di riuscire a realizzare una exit. Penso che il motivo principale debba essere legato alla volontà di rimanere indipendenti, perché questa mentalità permette di prendere delle decisioni pensando al lungo periodo, creando valore reale non solo per il momento presente, ma anche concentrandosi sul futuro. Se si crea un’impresa e già al momento dell’avvio si pensa solo ed esclusivamente a venderla, difficilmente che questo pensiero porterà alla creazione di un’azienda di valore”.
C’è una domanda a cui è difficile dare una risposta: come capire quando è giunto il momento di vendere? In fondo, anche Zuckerberg ricevette diverse offerte per un’acquisizione (da Microsoft e Yahoo, fra gli altri), quando Facebook era ancora gli inizi: se avesse ceduto, Facebook non sarebbe il business multimiliardario che è oggi. E lo stesso può dirsi, ad esempio, di Snapchat.
“Alla fin fine, è anche una questione di intuizione – dice Muller-Veerse – Qualche volta prendi la giusta decisione, come nel caso di Facebook, qualche volta no. Pensi: ad esempio a Rovio, l’azienda di videogiochi: qualche tempo fa ricevette un’offerta di acquisizione da più di due miliardi di dollari da parte di Zynga, e scelse di non accettarla. Ora la sua valutazione è parecchio scesa”.
Ricette perfette, dunque non ce ne sono, anche se sull’argomento, Guk Kim ha una sua idea. “Il momento buono – dice – e quando bussa alla tua porta un acquirente serio, con una proposta seria: potrà sembrare banale, ma spesso può venire a mancare il secondo ingrediente. Quando trovi un potenziale acquirente che valuta nel modo giusto il valore della tua azienda e che è consapevole di quello che hai creato, allora quello è il momento giusto per accettare. Abbiamo ricevuto tre offerte di acquisizione, prima di arrivare a quella giusta”.
Thk to F. Guerrini