“Startup”. Una parola ad oggi troppo abusata ed entrata nel lessico dell’italiano medio.
Un piccolo esempio-provocazione è il seguente: la vita media di un impresa è di circa 40 anni mentre è risaputo che la vita media di una startup è di 600 giorni. Allora la startup non è un’azienda? Quindi lo startupper non sta lavorando? Chiaramente è una provocazione.
Tutti abbiamo pronunciato almeno una volta la parola startup, ma nessuno ne dà la stessa definizione.
Iniziamo con quella di Wikipedia “Con il termine startup si identifica l’operazione e il periodo durante il quale si avvia un’impresa. Il piano di startup è un prospetto che evidenzia determinati costi tipici dei primi dodici mesi di attività, ovvero del periodo in cui si affrontano costi certi a fronte di ricavi incerti”.
La percezione della definizione di startup non si allontana molto da quella di Wikipedia. Il periodo di “startup” è quello che a mio avviso parte dalla costituzione dell’azienda, in cui il progetto a cui si è lavorato con gli amici diventa un’azienda in cui si lavorerà con i soci, fino a non più di dodici mesi di attività (chiaramente il settore influenza l’arco temporale). Se dopo un anno non si ottengono i primi risultati positivi non si è più uno “startupper” ma si è un imprenditore che ha fallito, quanto meno nella maggior parte dei casi. Chiaro che poi c’è sempre il Foursquare di turno, ma restano casi isolati.
Spero solo che l’essere uno “startupper” non sia una forma di collante sociale. Dire di essere uno “startupper” è sempre meglio che dire di essere un disoccupato che butta i soldi dei genitori o peggio, di altre persone. Inoltre gli startupper aumentano sempre di più, ma a questo punto credo sia normale visto l’aumento della disoccupazione giovanile. La cosa positiva è la voglia di fare, se accompagnata dall’etica è anche cosa positiva per l’Italia, diversamente è distruttiva. E io di etica nella comunità di startupper in Italia ne vedo pochissima.
Ma torniamo a Briatore e alle sue provocazioni, come quella di “aprire una pizzeria invece che una startup”. Briatore su questa frase fa confusione sulla parola startup. Appena si apre una pizzeria quella è una startup per i primi dodici mesi di attività. In un momento di crisi come questo, in cui la gente che esce per mangiare al ristorante è sempre meno, forse anche la pizzeria è una startup a rischio.
Probabilmente perché alla parola startup si accosta involontariamente una caratteristica digitale, allora consideriamo le cosiddette “startup digitali”. Qui Briatore dice qualcosa di sensato “Tutti che parlano di startup e non abbiamo la banda larga”. Briatore ha ragione, non entro nel merito perché si aprirebbe un capitolo enorme, però commento dicendo che anche il solo parlarne aiuta a risolvere (nel lunghissimo) i problemi. Quindi è un bene che molti aprano, falliscano e si lamentino.
L’osservazione a mio avviso più forte di Briatore, anche dato il contesto, è stato il dichiarare il volume economico che mensilmente i camerieri dei suoi ristoranti percepiscono solo di mance. Dai 3 ai 5 mila euro. Osservazione forte visto che l’80-90% dei bocconiani, almeno per i primi anni lavorativi e dopo tutto lo studio, l’alta preparazione, la fatica e i soldi investiti, può ambire a 1.000 – 1.500 euro al mese (questo da quanto ho visto, poi magari mi sbaglio).
Poi continua dicendo “Non ci sono opportunità, siate meno ambiziosi”. Per quanto sia una visione simile alla mia è comunque brutto da dire e da sentirselo dire, l’ambizione ci deve essere. Però è vero. Non possiamo essere tutti amministratori delegati. I ragazzi della mia generazione spesso continuano gli studi perché sono tutelati, in quanto studenti, dalla società, meglio studente che disoccupato. E ora siamo pieni di laureati, molti dei quali a forza, e ci mancano persone che facciano i “lavori umili”, che poi di umile hanno ben poco visto che il ritorno economico è alto. A breve chi finirà di studiare e non troverà lavoro diventerà uno “startupper” ne sono sicuro. Per i motivi di cui sopra.
L’ultima cosa che dico riguarda i falsi miti da sfatare. Di giovani potenti che se ne sono andati dall’Università perché in pochi anni hanno trasformato la loro idea in un impero ce ne sono pochissimi. Vi assicuro che l’impero l’hanno fatto grazie a gente con MBA, laureati e professionisti. Non certo da soli.
L’Italia deve puntare a valorizzare il suo patrimonio. In un Paese dove manca la banda larga è difficile che nasca uno Zuckerberg o un Gates. Spero che i ragazzi della mia generazione inizino a guardare con rispetto gli americani e il digitale che non abbiamo, dopo però aver visto con ammirazione gli italiani e quello che abbiamo. Se i miti dei ragazzi della mia generazione diventassero Oscar Farinetti di Eataly, Federico Grom di Grom e Antonio Civita di Panino Giusto, per fare alcuni nomi, forse si aprirebbero più pizzerie, più gelaterie e ci sarebbero più macellai, pizzaioli, camerieri e meno amministratori delegati di app fallite. E la disoccupazione scenderebbe.
Questo articolo non è contro me stesso. A 20 anni ho creato Egomnia, il social network italiano che aiuta a trovare lavoro e sono stato battezzato lo “Zuckerberg italiano”. Con tutti i pro e i contro che tanta visibilità troppo presto porta.
Ho lavorato sodo e a 22 anni ho un team di più di 20 persone, un volume d’affari a cinque zeri e nel corso 2014 la mia azienda diventerà una multinazionale aprendo in Brasile e a Singapore. Non ho ricevuto ancora un euro di finanziamento da nessuno e ho costituito un Srl in Italia dove sto pagando fino all’ultimo centesimo di tasse e affrontando tutte le difficoltà che si hanno quando si vuole innovare in questo Paese. È importante dirlo perché molti italiani che parlano di innovazione e sparlano del nostro Paese aprono le aziendine in California e in Inghilterra definendosi “startupper di successo” (cosa significa?), i peggiori.
Sono un imprenditore ormai, la mia è un’azienda e ogni giorno mi rimbocco le maniche per fare bene. Gli studi non sono semplici da seguire quando si entra nel mondo dei grandi, ma pago la retta coi soldi che guadagno e sono in corso al terzo anno di Economia Aziendale.
Io sto solo cercando di rendere grande l’Italia in settori purtroppo di nicchia in questo Paese, dove a livello mondiale l’Italia è quasi assente. Uno è proprio Internet. Certo il percorso è in salita, ma volete mettere la soddisfazione?
Fonte Matteo Achilli